EMILIO GRECO, estratto da L. Sciascia, La Corda pazza, Adelphi, Milano 1991,
pp. 124-126
Di scultura vera e propria, della grande scultura, Catania non offriva però che pochissimi esempi, forse nessuno che effettualmente conti nella formazione di Greco. Qualche terracotta arcaica della raccolta Biscari; la Venere di porfido dell’ex Museo dei Benedettini, il mausoleo del viceré d’Acuna nella cattedrale. Ma Siracusa è vicina a Catania: il grande Museo Archeologico che si dispiega, fitto fino alla congestione, intorno alla Venere Landolina (sulla quale Maupassant ha scritto delle pagine che bene si adatterebbero a certe recenti cose di Greco), una città in cui epoche, civiltà e stili si scoprono in una prodigiosa stratificazione. E tuttavia crediamo che la vera e piena rivelazione della scultura, della scultura assoluta, Greco l’abbia avuta a Palermo. Gli etruschi, le metope di Selinunte, Francesco Laurana, i Gagini, il Serpotta.
E sarà forse, quel che stiamo per dire, generalizzazione di una esperienza eccessivamente personale: ma crediamo che pochissime opere, e per noi questa primamente, valgono a dare idea della scultura in assoluto, della scultura “oggetto eterno” per così dire, quanto il Busto di Eleonora (o Isabella) d’Aragona di Francesco Laurana che si trovano nella Galleria Nazionale. Senz’altro ci sono sculture più grandi, più importanti, c’è il sarcofago di Cerveteri, c’è la Vittoria di Samotracia, il Marco Aurelio del Campidoglio quelle di Donatello, di Michelangelo: ma nessuna, a nostra impressione, meglio di questa del Laurana dice «perché la scultura», la sua essenza, il suo mistero; come e perché «possa sgorgare, di contro alla natura, la forma della scultura», e partendo da una condizione «che si pone così simile a quella della natura».
La ragione per cui Hegel metteva la scultura appena più su dell’architettura e al di sotto della pittura cioè il fatto che la scultura gli pareva non riuscisse a risolvere la materia in immagine dello spirito, davanti ad un’opera come questa di Laurana si rovescia ad affermare una identità, una peculiarità, una sintesi: la scultura è immagine dello spirito appunto perché in essa i corpi, le membra, i volumi sono dati (come dice Brandi) in modo assolutamente analogo a quelli dell’oggetto naturale e si accampano nello stesso spazio a tre dimensioni e nella stessa luce in cui noi che la guardiamo siamo contenuti. In definitiva: la vita che pensa, sicura, appoggiata in sé, in pieno accordo con se stessa – definizione che Alain applica alla Venere di Milo e che a noi pare estensibile a tutta la scultura delle “forme che posano”, che cioè non aspirano alla condizione della pittura o della musica – è peculiarità consentita alla scultura dalla materia, dalle sue tre dimensioni e diremmo anche dal suo peso. E la straordinaria forza del pezzo di Laurana sta proprio in questo: che totalmente obbedendo alla materia e totalmente esprimendola, «facendo del marmo quel che il marmo voleva», stupendamente ha espresso la norma della “vita che pensa”.
E c’è da credere che questa esperienza, di un’assidua e attenta contemplazione delle sculture di Laurana che si trovano a Palermo, sia stata per Greco fondamentale. Il busto di Eleonora, la testa muliebre, il sarcofago di Cecilia Aprile, i bassorilievi della chiesa di San Francesco, il ritratto di Pietro Speciale che ancora negli anni in cui Greco stette a Palermo era considerato di Laurana ed ora, chi sa perché, attribuito a Domenico Gagini: cose che si sono come incorporate alla città, alla sua luce (e persino il nome, Laurana, suona così consueto – e non è – che quando lo si ritrova in Jugoslavia come Vranjanin, Franjo Vranjanin, ci sentiamo vittime di una usurpazione, di una frode). E tra Laurana e Serpotta sembra ci sia un abisso, i due poli della scultura le due nozioni della scultura che a vicenda si negano, le due alternative: e invece si corrispondono sulla linea della “vita che pensa”, che in sé si appoggia e si accorda, nonostante il vento barocco che investe e solleva il mondo serpottiano. Ma qui il discorso si farebbe complesso e forse svagato.
Lasciamo dunque il Serpotta al barocco, e diciamo che in Greco, pur così saldamente legato alle forme che si appoggiano, la tentazione barocca, la componente anzi, è da tenere in conto.
Il primato della scultura italiana d’oggi, da Martini a Perez, risiede nel fatto che dal punto morto (o mortale) cui questa arte era arrivata, gli italiani hanno saputo operare un collegamento vitale con l’antico. Questo collegamento Greco l’ha operato, per sua parte, attraverso una visione del mondo essenzialmente erotica, di armonia erotica. Sorgente di quest’armonia è, naturalmente, il corpo della donna; e da lei si irradia in tutte le cose: forma ritmo, misura del mondo.
Viene da ricordare quel canto indiano che dice: «Il desiderio, che fu il primo seme dello Spirito, il nodo tra l’Essere e il Non Essere, nel loro cuore scoprì il desiderio della saggezza». E in questo senso è da intendere la saggezza di cui dice Greco in una poesia dedicata a Siracusa: «Nel loro alveo calcinano / queste pietre che l’erba solleva / con cunei lenti. / Attorno un antico silenzio / sfiora la mia fronte come una grande ala. / Qui son vissuto per millenni: / la saggezza m’è stata compagna / in questo lungo viaggio». E una tappa di questo lungo viaggio è da considerare l’Ars amatoria che Greco ha disegnato sul testo di Ovidio. Le edizioni Propylaen di Francoforte hanno trovato l’artista più congeniale: forse soltanto Greco, oggi, poteva rendere, attraverso la rappresentazione in figure, intatto il senso dell’Ars amatoria: quell’erotismo objectal compatto e luminoso come un corpo celeste in cui la donna si inscrive e in cui il piacere in se stesso ruota e si inebria librato sulle passioni e sulle angosce, intangibilmente sereno e armonioso; quella saggezza erotica insomma, in cui le componenti fisiche e psichiche dell’amore perfettamente si equilibrano: e le prescrizioni tattiche e strategiche – d’ordine psicologico, comportamentale,cosmetico e positionnel – non dicono di una guerra ma di un giuoco. Il giuoco dell’amore: di quando l’amore non era legato alla morte e al male.